Live report: Machine Head
Estragon, Bologna, 1 ottobre 2015
Ragazzi, ho appena comprato il primo cd di questo gruppo mai sentito, i Machine Head: ho letto su Flash e Metal hammer la recensione dell'album e dicono sia una figata, thrash metal tipo Pantera, qualcuno viene in camera mia ad ascoltarlo?
Arriviamo a casa, accendiamo il lettore cd, alziamo il volume dalle casse di poco valore e partono le note trascinanti del primo pezzo. Iniziamo subito a piegare leggermente le ginocchia e a muovere la testa avanti e indietro sempre più violentemente finchè presi dalla foga ci scontriamo... e rinsavisco.
Il flashback si dissolve e mi rendo conto che l'amico al mio fianco è un perfetto sconosciuto. Non sono nella mia cameretta adolescenziale ma in una sala concerti. L'unica cosa rimasta uguale sono le potenti note di Davidian... ah, ecco, sono a "An evening with Machine Head". Magia della musica che ti porta con la mente indietro nel tempo come se non fosse mai passato.

Una serata con i Machine Head dove si ripercorre la carriera musicale della band, iniziando dall'album di debutto
Burn my eyes fino al recente
Bloodstone & Diamond, passando per i pezzi più belli degli 8 album della band.
Fondatisi ad inizio anni '90 ad Aokland, California, genere groove metal, new metal, thrash metal... chi lo sa, in questi casi etichettare non importa. A mio parere sono una band eccezionale, un buon compromesso tra potenza, musicalità, tecnica e buon gusto; dal vivo, poi, uniscono tutti questi elementi creando un impatto sonoro devastante.
Il palco è addobbato a festa: bandiere con i leoni in stile araldico, qualche torretta con al centro il logo bicolore della band MH e alle spalle l'enorme stendardo con l'effige dell'ultimo album. Inizia l'intro di Zio Ozzy,
Diary of a madmen: l'oscurità si abbatte sulla sala, partono le note di
Imperium. Mitragliate di rullate combinate con le luci strobo squarciano il buio come granate accecanti, la cassa di
Dave McClain dall'alto della sua postazione spara colpi di mortaio, l'operation Machine Head è cominciata.

Si passa a
Beautiful Morning, pezzo estratto da
The Blackening, in cui
Flynn esorta il pubblico a battere le mani seguendo il tempo dei colpi di cassa: countdown e si parte con la ritmica come un pugno nello stomaco. Si prosegue con
Now we die, orchestrata meravigliosamente, armonizzata da una sezione di archi elettronici preregistrati che creano una visione malinconica e apocalittica, si arriva al culmine con l'assolo in doppio tapping che annuncia la "rinascita" in perfetta simbiosi con il testo.
Robb Flyn, da grande esaltatore quale è, richiede spesso la partecipazione del pubblico ringhiando: "Circle Pit! Circle Pit!" e subito si apre una voragine al centro della sala che si trasforma in un'enorme mulinello umano sul finire delle note dell'arpeggio di
Locust.
Si prosegue con qualche pezzo tratto dal periodo new metal, quello più criticato dai thrasher fondamentalisti, evidentemente non presenti stasera visto che con
The blood the sweet the tears e con
From this day, dalle ritmiche trascinanti e dal cantato rappato, il locale si trasforma in un gigantesco tappeto elastico.

Ricaricate le armi si riparte sparando sul pubblico un'altra sequenza di pezzi senza pause partendo da
Ten ton hammer e
This is the end, proseguendo con una scaletta alternata da composizioni più recenti e pietre miliari del passato.
I suoni della band sono quelli tipici del post Thrash, la struttura delle canzoni sempre ricercata con chitarre maestose rigorosamente accordate sotto di vari semitoni che intersecano due ritmiche, una che sostiene la voce, l'altra più melodica. Una sezione solistica tecnicamente ineccepibile. Il
drumming roccioso, arricchito da un'equilibrato utilizzo dei tamburi, assieme al basso preciso e mai invasivo, lasciano campo aperto alle vere regine della serata:
le chitarre di Dammel e Flynn.
Dopo una breve pausa, tra le luci soffuse compare Flynn imbracciando due chitarre: con l'acustica elettrificata alterna gli accordi di
Darkness within ad un monologo in cui spiega un po' di storia dei 23 anni di musica dei Machine Head e la sua enorme passione per la musica live, concludendo con "I play every day fucking heavy!". L'acustica viene fatta roteare dietro la schiena come un hula hoop e attacca la distorsione.
Il finale del pezzo dal cantato dolcemente sussurrato si trasforma in un coro da stadio che persiste per alcuni minuti a canzone terminata, sotto gli occhi visibilmente soddisfatti dei quattro veri cavalieri della Bay Area.

Probabilmente a causa del mio legame affettivo con i primi album l'apice dell'esibizione si raggiunge con la già nominata
Davidian da
Burn my eyes, pezzo dal groove travolgente ed aggressivo. Il pubblico dell'Estragon inizia subito a lanciare i pugni verso il cielo, sincronizzandosi perfettamente con l'headbanding selvaggio e simultaneo della band che accompagna le potenti pennate. Fermandosi poi di scatto nel momento esatto in cui stridono gli inconfondibili e a volte ridondanti armonici, marchio di fabbrica della band.
Ora
Game over, Flynn con la voce sabbiosa e rabbiosa interpreta in modo quasi teatrale le prime strofe, doppia cassa e basso incalzano... si parte! Gli unici esentati dal saltare devono esibire la prescrizione medica. Poi
Old e
Halo chiudono le ostilità.

Il campo di battaglia è ormai sgombro. Circa una ventina di pezzi, due ore e trenta minuti di show di altissimo livello, i pochi superstiti sventolano bandiera bianca arrendendosi davanti ad un attacco eseguito con tanta violenza e precisione.
Distribuzione di rito di plettri e bacchette e finale con la foto di gruppo con alle spalle il pubblico in delirio consapevole del fatto che
il thrash metal è vivo e vegeto.
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